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QUADERNI DI SEMANTICA

La fiaba e altri frammenti di narrazione popolare. Convegno internazionele di studio sulla narrazione popolare (Padova 1-2 aprile 2004), a cura di L. Morbiato, Firenze, Olschki, 2006 [Biblioteca di «Lares», nuova serie, vol. LX, Monografie], pp. 306,€ 35.

I contributi che compongono questi atti congressuali, diversi per metodo e campo d’indagine, intendono tutti, nelle intenzioni degli organizzatori del convegno e del curatore del volume, dar forza alla convinzione «che i racconti orali nei bivacchi delle comunità tribali come le fiabe che hanno espresso per secoli sogni e desideri degli umili nelle società di antico regime (prima di finire nel repertorio per l’infanzia), le storie avventurose come il melodramma, e perfino parte della cultura popolare di massa del nostro tempo, contengano per sillabe e frammenti un’unica e ininterrotta storia» (Presentazione, p. VII).

Nell’ovvia impossibilità di dar conto criticamente di tutti i 21 saggi, in questa recensione mi soffermo sui tre lavori che io considero più innovativi e stimolanti, vale a dire quelli di Carlo Donà, Giuseppe Giacobello e Paolo Peruch, rinunciando di dar conto di altri ottimi contributi, tra i quali, in particolare, segnalo quelli Dan Octavian Cepraga e Ouidad Tebbaa.

[…]

Il contributo di Paolo Peruch è una testimonianza viva e diretta di quarant'anni di ricerca sul campo, iniziata con una tesi di laurea (Peruch [1965]) e attualmente ancora in fieri (cfr Peruch [2001,2003]). La peculiarità del suo intervento al convegno padovano sta nel fatto che l'oggetto di studio non sono i motivi, le forme e le tradizioni dei racconti, o i metodi di indagine, ma i diversi modi di porsi dei narratori, analizzati in particolare all'interno dello speciale rapporto comunicativo che intercorre tra narratore e ascoltatore, nucleo primo e ultimo di ogni esperienza narrativa. Ciò che Peruch intende fare è, nelle sue parole, «ricostruire una mappa territoriale e  sentimentale, prima che testuale e critica» presentando le voci e i comportamenti dei suoi informatori. Vale la pena citare per esteso alcune di queste righe, per dare un'idea meno vaga di ciò che il lettore e lo studioso possono trovarvi. Della narratrice Santa (nata a Bibano di Godega di S. Urbano nel 1925), egli scrive:

nonostante la nostra precedente familiarità, nel corso della prima intervista era esitante, insicura, quasi sospettosa e incredula che ci si potesse interessare alle sue storie [...]. Di intervista in intervista acquistava sicurezza, voce ed entusiasmo, uscendo da una certa rassegnazione, da una rinuncia a raccontare [...]. ne ho tratto la convinzione che, tornando a raccontare, sia uscita da una forma di latente depressione, tanto diffusa tra gli anziani [...]; mi permetto di insistere su questo aspetto, non secondario nella mia esperienza di raccoglitore: il ritorno della pratica del racconto di fiabe e favole può aiutare a superare forme anche gravi di abbattimento psicologico (p. 189).

 

Considerazioni di questo tipo, estremamente rare nel discorso etnologico, hanno – oltre a un’eventuale conseguenza sul piano della proposta di carattere sociale e terapeutico, che qui mi interessa meno – il merito di ricordarci un fatto che paradossalmente tendiamo a dimenticare nelle nostre raffinate indagini comparative e stilistiche: cioè che tutte le fiabe (e non solo), con i loro motivi e le loro formule, con il loro stile peculiare e la loro struttura antichissima, hanno viaggiato e viaggiano nel tempo e nello spazio grazie a persone come Santa di Bibano, per le quali esse rappresentano cose ben più profonde di un semplice repertorio tradizionale. La cosa è evidente nell’esempio di una narratrice più giovane di nome Luciana (nata a Godega di S. Urbano nel 1952):

 

raccontando Luciana si entusiasmava: riviveva evidentemente i momenti incantevoli sia della sua infanzia nella famiglia patriarcale di provenienza, allorché ascoltava i racconti del padre con i fratellini e i cuginetti raccolti nella grande stalla, sia quando, giovane madre, portando i propri figli a far visita ai nonni, tornava a sentire le medesime storie (p. 189).

 

Fa bene Peruch a ricordare che anche nell’Asino d’oro di Apuleio compare una fanciulla che, catturata dai pirati, trae conforto dall’ascolto e dal ricordo delle fabulae. In questo modo, infatti, ci costringe a interrogarci, come raramente facciamo, sulle persone che hanno raccontato storie oltre che sulle storie, sui loro sentimenti oltre che sulla loro tecnica, sulle loro motivazioni oltre che sulla loro formazione. Dicevo prima, a proposito dell’intervento di Donà, che si può sospettare una continuità di certe esperienze narrative fin dal Paleolitico. E’ emozionante comprendere che i protagonisti e i fautori di questa continuità sono state persone che, come quelle incontrate dall’etnologo di Vittorio Veneto, e naturalmente con motivazioni e funzioni sociali diverse a seconda dei contesti, hanno vissuto una vita particolare, o frammenti di vita particolari, proprio per il fatto di tramandare questo sapere tradizionale. I ricordi, i desideri, gli aneliti dei narratori tradizionali sembrano invece di solito non interessare molto gli antropologi.

L’intervento di Peruch, che prosegue con riferimenti ai comportamenti di altri sette narratori, ha il piglio schietto di chi fa vera e appassionata ricerca sul campo, senza il bisogno di ammiccamenti a quel metalinguaggio critico-semiotico che è ancora di moda in certi studi di etnologia, soprattutto di area italiana e francese. Da questo punto di vista trovo che il suo sia anche un modo garbato e svergognante per riportarci a quelle realtà delle cose che viene prima e dopo ogni fiaba o narrazione che noi studiamo. «Potremo ancora salvarci» - si chiede lo studioso in conclusione -  «se sapremo riconoscere la luce nel bosco?» Una domanda all’apparenza semplice e un po’ di maniera, che in realtà ogni studioso di fiabe dovrebbe, segretamente, porsi, come ricordava anche Tolkien nei suoi lavori teorici sui fairy tales [Tolkien 2003].

[…]

FRANCESCO BENOZZO

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