PREMESSA
Il mondo popolare ha formato per lungo tempo un sistema autonomo, fissato negli oggetti della civiltà materiale o affidato alle espressioni della letteratura popolare. La cultura che ne risulta è stata spesso tacciata di superstizione o subalternità, esaltata talvolta come genuina o contestatrice, anche se in realtà essa si presenta ibrida e confusa, frutto di mescolanze e sovrapposizioni; pur debitrice della cultura "alta", egemone, essa ha conservato una oscura, sotterranea vitalità, che le ha permesso di rinnovare se stessa e di contaminare dal basso quella ufficiale. Basata sull'oralità e sul dialetto, puro flatus vocis, la letteratura popolare è difficile da analizzare, impossibile da ordinare, perché sfuggente alle categorie e alle discipline: solo per analogia diciamo che i proverbi sono l'espressione della filosofia popolare, che le fiabe corrispondono all'epica e le canzoni alla lirica popolare…
Se per i romantici l'unico vero poeta era il popolo esprimentesi attraverso le sue canzoni e per Tommaseo una raccolta di proverbi popolari era tanto "gravida" di pensieri quanto la Bibbia, un teorico della letteratura come Northrop Frye afferma che i racconti orali della società tribale, le fiabe come voce ed espressione della classe inferiore nei sistemi sociali complessi, le storie di avventure e il melodramma, fino alla cultura popolare di massa del nostro tempo, si possono considerare le sillabe e i frammenti di un'unica immensa storia narrata infinite volte.
La fiaba conserva ancora legami con la mitologia, con le più antiche interpretazioni del mondo, con i racconti delle origini. C'era una volta/Il était une fois/Es war einmal/Once upon a time there was/Era na volta: la formula d'inizio è il segnale che stiamo per entrare in un mondo altro, parallelo o capovolto rispetto a quello della realtà di tutti i giorni nella quale, narratori e ascoltatori, tutti viviamo, mentre la formula conclusiva è il segnale che nel mondo della realtà dobbiamo rientrare, dopo l'intervallo temporale necessario all'esecuzione della fiaba.
In un tempo che ha marginalizzato o espulso il mondo altro, eliminato i suoi segnavia - capanna, bosco, giardino, palazzo - e banalizzato le sue parole d'ordine (per prima l'inflazionata "magia"), è possibile occuparsi di fiabe e del mondo che evocano?
Paolo Peruch pensa che sia possibile e ha deciso di tornare a occuparsi
della cultura popolare e delle sue espressioni, dopo il suo pregevole Contributo allo studio dei proverbi del Veneto (tesi di laurea del lontano 1965 in Letteratura delle Tradizioni Popolari), ma resistendo alla tentazione nostalgica, sempre in agguato quando tentiamo di riaccostarci al mondo narrativo-fantastico che abbiamo fatto appena in tempo ad incrociare, prima che venisse inghiottito nel vortice della modernità (e che talvolta riaffiora da qualche stagno della postmodernità). Aiutato da numerosi e partecipi testimoni-informatori, egli si è imposto uno sguardo obiettivo, talora asettico, sulla letteratura popolare dell'area vittoriese, ne ha tentato una classificazione e l'ha significativamente intitolata "Na idea de l mondo", traducendo questo titolo enciclopedico con il più modesto "Elementi di cultura contadina" e suggerendo un gioco delle combinazioni - un puzzle - basato sulla frequenza di temi ed elementi in proverbi, modi di dire, indovinelli.
Sembra quasi che il curatore, dopo aver raccolto con amore, evocandole dalla propria memoria o sollecitandole dalla voce di vecchi narratori/narratrici, le sue vive, ancora palpitanti creature - proverbi e storie, quasi gremlins e coboldi -, le abbia distese su un lettino anatomico per saggiarle con strumenti scientifici alla ricerca di un'anima comune (o del loro DNA).
Era na òlta un re, che l vea na fia đa mariđar…
Era na òlta tre frađèi, che i se ciaméa…
Era na òlta un tosat che no l vea né pare né mare…
Era na òlta un òn e na fémena che i vea un fiòl…
L era na òlta un sior…
Era na òlta na vècia che la girea co un galòbo…
Era na òlta na mama e la so toseta…
So mare đe Piereto-capeleto la vea un perèr grando…
Era un òn e na fémena che no i vea fiòi…
Queste o simili creature sono state studiate e strutturate in complessi lavori di catalogazione (dai pionieristici studi di Aarne al Motif Index of Folk-literature di Stith Thompson), anche se fanno fatica a stare ordinate - neri caratteri con segni diacritici su pagina bianca - perché sono nate forse attorno ai fuochi dei bivacchi, hanno stazionato in una stalla semibuia, tra il fumo di una lampada a petrolio e gli effluvi degli escrementi bovini; e qualcuna è miracolosamente arrivata sino a noi, superando l'avvento dell'elettricità e del riscaldamento centrale. Per queste Paolo Peruch ha caparbiamente e meritoriamente allestito un laboratorio illuminato dalla luce fredda, ordinato con armadietti e contenitori pronti ad accogliere proverbi, filastrocche, blasoni come tanti vetrini di preparati istologici, ed ora lo offre ai lettori di generazioni diverse perché provino a ridare la libertà a quelle voci, grazie alle interferenze della memoria o al piacere della scoperta. Questa finale opera di riconoscimento e (ri)appropriazione del "vecio parlar", del "parlar de nène-none-mame" (Zanzotto) mi sembra il coronamento di un serio, sistematico e appassionato lavoro di raccolta.
LUCIANO MORBIATO